È difficile che il luogo in cui cresciamo sia anche quello prediletto. Sicuramente non lo è per grandissima parte della nostra vita, specie in adolescenza.
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Treno di andata: i sogni in partenza

La necessità di evadere è qualcosa che ho portato dentro per tanto, tantissimo tempo. Avevo necessità di scappare via dalle situazioni, dai luoghi, dalle persone, perfino da me stessa.
È una sensazione che ho concretizzato solo da poco, perché un blocco mi impediva di immaginarmi fuori dalla culla natia che per me è Bari: avevo la sensazione che sarei soffocata se me ne fossi andata, come un pesce fuori dall’acqua.
Poi arriva il momento in cui ti senti pronto e sai che devi farlo, che devi trovare il modo per esplorare il mondo; nella consapevolezza che il tuo sogno è in qualche fazzoletto di terra, abbracciato dal sole e cullato dal vento. E allora quel treno, carica di valigie e con occhi lucidi e speranzosi, lo prendi.
Treno di ritorno: lo scontro con la realtà
Non era esattamente come la pensavi, vero? Ti avevano promesso il mare e hai trovato una pozzanghera. Tutta quella velocità ti dà alla testa, tutti quei rumori ti fanno fischiare le orecchie.
Migliaia e migliaia di persone e ti senti sola, come nel deserto. Hai preso la prima metro con fremita eccitazione, pensavi di poter arrivare addirittura sull’Himalaya con tutte le fermate che ci sono.
Dopo un mese hai fatto l’abitudine a tantissime cose. Fai attenzione alla guida nervosa e impaziente delle macchine che corrono sui viali, corri tu al verde del semaforo perché sai già che scatterà subito il giallo ansiogeno, sai che odierai andare sulla metro e vedere tante, troppe facce.
“Ma non è incredibile che tu prenda 4 treni diversi al giorno e su nessuno becchi mai le stesse persone? Non è eccitante e misterioso?“.

È vero, quante storie ho visto ogni giorno sul treno. Mi può passare accanto un manager importante, si può sedere di fronte a me un accumulatore seriale e mi può bloccare l’uscita un volontario al canile.
Però sono storie che mi immagino, non cose che so davvero. Quanto si riesce a parlare, nell’ora di punta, sui mezzi pubblici? E soprattutto, vuoi davvero farlo? Siamo sempre così tristi in metro. A guardare da fuori, neanch’io vorrei parlare con noi.
Tu guarda, dico “noi”, ma in realtà non siamo persone: siamo una massa informe di volontà infrante.
C’è chi lavora per un’azienda importante, chi rincorre la laurea, chi ha attraversato un oceano per cercare la pace. Tutti per finire stanchi a pensare su obiettivi che diventano più vicini, più brevi, più gestibili: come arrivo là, cosa mangerò stasera, cosa farò più tardi. Non siamo una comunità, siamo molecole in un flusso d’acqua che finiscono per perdersi e mai più ritrovarsi.
Treno fermo in stazione: staticità
Alla fine finisci per pensare che un sogno sia qualcosa di indefinito nello sfondo, il resto sia una ricerca di serenità che passa.
“Fuorisede” = fuori la propria sede. Dov’è il luogo di appartenenza? Cosa ci spinge a cercare casa laddove non ci sentiamo bene? Percorri i chilometri solo per accorgerti che butti giù lacrime ad ogni passo verso un Nord che non ha una stella polare.
Ti rendi conto che una persona sola può renderti casa anche la landa più desolata al mondo, ma che senza anche l’Eden sembra ostile?
Quanto è difficile mantenere un senso di appartenenza. Vivi da una parte, ma non vedi l’ora di tornare. Torni, e noti che il paesaggio è cambiato senza di te; hai l’impressione di non fare più parte della storia di quel posto.
E allora di che storia facciamo parte? Forse di quella del viaggio. Di quella costantemente su un mezzo che viaggia da A a B, dove A ha il cuore, ma B i sogni.

E tu hai il privilegio di scegliere e andare verso B. Chi deve rimanere ad A, dove il cuore non raggiunge tutti i suoi obiettivi, cosa fa? Sei fortunata. Ma io dico che c’è anche il privilegio del poter rimanere: sapere che ciò che vuoi è esattamente dove già sei. Sapere che nella tua città c’è un’università, un mercato del lavoro stabile, la pace e non i mortai che sparano sul cielo aranciato.
Nel viaggio trovi i tuoi simili, quelli affamati di storie. Persone che vogliono parlarti, conoscerti, rendere quel viaggio un po’ meno angosciante. C’era S., mamma del Salento, venuta a trovare a Milano il figlio. Lui l’ha accompagnata fin sopra il treno, le ha portato la valigia. Mi ha ringraziato perché ero gentile con sua madre, si è assicurato fino all’ultimo di farle sapere quanto le volesse bene.
Cosa pensa un figlio in queste situazioni? Forse spera che la madre arrivi ad A il più in fretta possibile, senza graffi. Spera che non incontri gente padrona che giudichi la sua provenienza, che non la chiami “terrona” e sputi a terra. Il figlio si è fatto le ossa, sa incassare, ma la madre che si trova in territorio alieno?
Un’altra volta ero sul treno diretto a Roma, accanto a me una famiglia del Sud. Ho chiaccherato con i due coniugi, ho raccontato loro i miei sogni. A mezzogiorno si sono messi a mangiare con il disordine e il chiacchiericcio che per me è Casa: mi hanno offerto un panino. “Potresti essere nostra figlia” è vero, potrei. Ma lo sarei lo stesso se avessi una pelle diversa? Non siamo tutti figli allo stesso modo, nel mondo?
Ciò che per me è A per qualcun altro è B. Per me il Mediterraneo è culla, per qualcun altro è stato una bara. Per molti il viaggio verso l’ignoto è arduo e rimanere lo è ancora di più quando non riesci a sentirti completamente accettato, quando non sai trovare la tua Casa pur avendo un tetto sopra la testa. Siamo davvero così diversi io e un rifugiato?
Certo che sì, perché io il privilegio di rimanere e non morire, o rimanere e non sopravvivere a stenti, l’ho avuto. Non mi immagino cosa sogni un rifugiato, ma so che Casa la cerca più lui di me, perché la sua vecchia è ormai in fiamme.
Mi rimane scolpito nella memoria la scena in cui una persona a me cara, vedendo una ragazza con una valigia enorme salire sul pullman diretto ad A, mi disse “Già. Quanto costa un sogno”.