Negli ultimi anni abbiamo assistito a una costante crescita nella sensibilizzazione sulla salute mentale, specialmente sui social. Diverse pagine (come The Depression Project) raccontano temi forti per educare il pubblico a una consapevolezza e ad un’azione più coscienziosa: il veicolo utilizzato incide molto sulla fetta di popolazione a cui si mira. Contenuti di qualità sulla salute mentale, dall’ansia ai disturbi di comportamento alimentare, si trovano soprattutto su Instagram e Tik Tok, cioé i social più utilizzati dalla Generazione Z in avanti.

Io rientro per un filino nella Gen Z, essendo nata giusto a fine novecento. Il gap generazionale è analizzabile su più piani: weltanschauung, uso degli artefatti tecnologici, pensiero critico. Le “nuove” generazioni sono parecchio consapevoli sul piano sociale: insomma, sappiamo di essere figli di multiple crisi, economiche e sociali, quindi non ci sorprendiamo nel vedere quanto i disturbi mentali infestino soprattutto i giovani.
Parliamo dell’ansia: è uno stato psicologico altamente adattivo, senza di essa non saremmo sopravvissuti come specie umana. Corrisponde ad uno stato di alta attivazione psicofisica stimolato dall’amigdala, un’importante complesso nucleare che modula la risposta “fight or flight”: combattere o scappare da una minaccia ambientale.
È importante ricordarlo perché l’ansia viene demonizzata nei più svariati modi. È orribile provarla, ma come tutti gli stati e le emozioni negative, è comunque necessaria per la nostra esperienza.
Questa è stata una premessa sociale e psicologica doverosa, fondamentale per far capire ai lettori una cosa: ci siamo stancati di sentire sentenze sputate sulla nostra salute mentale. La consapevolezza, tutto il lavoro che ho fatto con e sulla mia ansia non solo me lo sono duramente sudato, passando per un inferno personale tortuoso e buio, ma lo rivendico con le unghie e con i denti.
Con questo inizio la mia breve guida, testata su me medesima, su come ho capito che sono state davvero poche le persone attorno a me che si siano sforzate di avere un atteggiamento rispettoso nei confronti del mio dolore e di quello altrui. Questa consapevolezza, oltre a crearmi una rabbia incredibile, mi ha però anche fatto rendere conto di quanta strada è necessario percorrere insieme per l’accettazione: insieme, sì, perché anche io ho spesso sbagliato. Informiamoci, formiamoci, ascoltiamo noi stessi e gli altri. Buona lettura.
Non è “ansietta”
Questa è una parte un po’ spinosa, perché facilmente fraintendibile. Mi è capitato diverse volte di sentire sminuita la mia ansia, pur stando vivendo un turbine infinito di malessere.
Non credo che questa cosa sia sempre stata fatta di proposito, piuttosto credo che la maggior parte delle volte fosse un tentativo mal riuscito di minimizzare il problema per darmi una visione diversa della cosa.
Quello che, però, accadeva dentro di me era il contrario: iniziavo a pensare di star delirando e di star ingigantendo una minuzia. Questo genere di pensieri alimenta il loop ansioso e ansiogeno di cui parleremo più avanti. Insomma, mi pareva di star perdendo la testa.
Chiariamoci: è difficile trattare qualcosa che non conosciamo personalmente, se non ci sono conoscenze specialistiche dietro. Il punto dell’articolo non è di puntare il dito contro chi non assume un atteggiamento empatico nei confronti dell’ansia, ma anzi capire insieme che c’è molta strada da fare in termini di sensibilizzazione e formazione personale.
In momenti di forte ansia aiuta molto percepire di essere capiti: sapere che qualcun altro riesce, anche indirettamente, a capire l’enorme dolore che stai provando è importante. Non limitiamo il discorso sullo sminuire il disturbo, piuttosto cerchiamo di capire come sta la persona di fronte a noi, a cosa pensa, cosa può aver scatenato il loop e, con calma e pazienza, decostruire il pensiero disfunzionale alla base della manifestazione ansiosa. Senza sommergere di domande o di supposizioni, ma lasciando lo spazio alla persona per la rielaborazione e la manifestazione delle proprie emozioni.
“Come stai? Riesci a percepire cosa ti abbia scatenato l’ansia? Dev’essere brutto, ma io sono qui per te. Proviamo a tornare indietro e a capire cosa sia successo, ti va?”
Non è tutto nella mia testa

Penso sinceramente che chi sia convinto che le persone si “inventino” stati mentali e disagio psicologico non sia mai entrato in contatto con il proprio, di dolore. Questo non è un insulto: è un grave problema di rilievo sociale, presente specialmente nella popolazione maschile e nelle generazioni più grandi (avete mai sentito parlare dell’alessitimia?). Se esistessero nelle scuole programmi di educazione affettiva e di educazione alla salute mentale non ci sarebbe il bisogno di fare sensibilizzazione: ecco perché siamo qui.
Certo, nel pratico è davvero tutto nella testa di chi è in uno stato d’ansia, ma non per questo vuol dire che quel qualcosa non esista. Tutto ciò che è psicologico ha una sfera personale, non facilmente consultabile agli altri. Il meccanismo empatico serve esattamente a questo: comprendere lo stato emotivo altrui senza doverlo provare sulla propria pelle.
In particolare, l’ansia patologica è uno stato altamente disfunzionale nel quale sono coinvolti pensieri ripetitivi, ossessioni, pensieri intrusivi e stati psicofisici piuttosto forti e improvvisi.
Dire ad una persona che, ad esempio, sta avendo un attacco di panico “Dai smettila, che è tutto dentro la tua testa” corrisponde a non legittimare l’esperienza emotiva della persona. Immaginiamoci di provare una forte tachicardia, di sudare freddo, di avere vertigini e un impellente senso di morte o di perdita del controllo che pende sulla nostra testa come una spada di Damocle.
Oltre la sintomatologia a livello fisico, si deve considerare anche quella psicologica: a seguito di un trigger qualsiasi, si incomincia ad avere un pensiero che si ripete in un loop. In questo circolo vizioso, difficilmente sbloccabile, si inseriscono gli scenari peggiori possibili: d’altronde, l’ansia è il disturbo del “futuro”, perché fa sbiadire il presente per cercare di prevenire un disastroso avvenire.
Assumere un atteggiamento empatico può rivelarsi decisivo. Ascoltiamo, non solo con l’udito, ciò che la persona davanti a noi comunica. La legittimazione di uno stato d’ansia può far tanto: non è raro sentirsi fuori di sé nel flusso dei pensieri ansiosi. Sapere che c’è qualcun altro che conferma il proprio malessere può essere un grandissimo passo in avanti per la personale accettazione.
“Dev’essere veramente dura. Percepisco il dolore che provi. Possiamo provare a superarlo insieme, che ne dici? Magari proviamo a muoverci un po’ o a distogliere per un attimo il pensiero dalle preoccupazioni. Anche se non vuoi nessuno accanto adesso, io posso starti vicino, anche a distanza. Così se hai bisogno, io sarò qui per te”.
Non sono la mia ansia
È capitato che persone a me care identificassero me nella mia ansia. All’inizio non riuscivo a capire cosa fosse quel sentimento di disagio che provavo nel sentire con così tanta naturalezza qualcuno a cui voglio bene identificarmi con il mio peggior nemico.
Era effettivamente vero che provassi molta ansia disfunzionale e che ciò si ripercuotesse sulla sfera sociale. Ma da qui a dirmi che ero “quella ansiosa”?

Penso di essere tante cose in più, rispetto ad essere solo “ansiosa”. Evidentemente chi non si è mai sforzato di vedere oltre non è una di quelle persone con cui io, o chiunque altro sia sensibile a queste tematiche, voglia spendere il mio tempo.
Anche nel giocoso scherzo (giocoso per chi, poi?) questa è una cosa da evitare, senza mezzi termini.
Questa è la mia rivendicazione: io non sono la mia ansia, ma la mia ansia fa parte di me. È innegabile. Non sarei la persona che sono oggi se non avessi provato tanta di quella ansia da sentirmi soffocare, certe volte. Lei, la mia peggiore nemica, mi accompagna da un po’ di tempo. Che io la odi è scontato, ma col tempo mi sono sforzata di capirla: l’ansia mi parla di tutti quei bisogni di rassicurazione, di certezza e di sicurezza che non ho sentito soddisfatti.
Insomma, non posso ignorarla. Non posso far finta che non esista e vivere come se non ci fosse. Ma questo è un problema mio, non degli altri. Nessuno può mettere bocca sul dolore personale, che sia malattia fisica o disturbo mentale.
Sforziamoci tutti insieme di capire l’altro, senza giudizi o preconcetti. Ascoltiamo e poi, solo dopo, parliamo per curare.
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