In questo articolo voglio (pro)porti una domanda aperta per imparare a ragionare in modo inclusivo e superare gli stereotipi di genere. Questo perché anche tu sei parte fondamentale del cambiamento. Prima, però ti occorre prendere consapevolezza sui meccanismi sessisti quotidiani nel sistema educativo, nei modelli di istruzione-circolazione culturale e nell’uso del linguaggio. Puoi leggere fino in fondo per formulare la tua risposta. Sei pronta o pronto? Cominciamo da alcuni dati di fatto…
Riconosciamo gli stereotipi di genere
L’approccio alla cultura tipico della nostra società è spesso monolitico e insufficiente ad analizzare una realtà complessa in modo obiettivo considerando i bisogni di tutte le categorie prese in analisi. Il Sapere che conosciamo e che viene proposto con un’accezione di “neutralità” è in realtà filtrato da lenti patriarcali, retaggi storici e sociali di una civiltà occidentale che discrimina le donne e quei valori ad essi associati come la vulnerabilità, l’emotività e la natura. Per estensione, questa cultura ha discriminato per lunghi secoli qualsiasi essere umano diverso dallo standard ipermascolino, abilista e neurotipico. È molto frequente imbattersi in bias di genere e stereotipi dannosi anche nelle materie di studio che millantano uno sguardo imparziale o addirittura “scientifico”.
Il paradigma culturale patriarcale utilizza il genere maschile come metro di misura di tutte cose distorcendo l’interpretazione dei dati, indirizzando la ricerca in un determinato modo e censurando punti di vista femminili o marginalizzati. Crea deduzioni inesatte, interpretazioni distorte e persino dannose dei fenomeni umani e delle caratteristiche corporee. Ad esempio, le donne ribelli a un sistema opprimente venivano diagnosticate come “isteriche” e rinchiuse nei manicomi più simili a luoghi di tortura e detenzione che di cura.
Per non parlare del tabù mortificante sul piacere sessuale femminile col supporto delle più diffuse teorie freudiane che hanno negato anche l’esistenza di orientamenti sessuali ed espressione di genere non binarie. Questo sistema culturale basato sui pregiudizi ha impedito l’espressione femminili in ogni sua sfaccettatura generando insicurezze e problemi di autostima ben distanti da un intento terapeutico e di salute mentale e sociale. Questo deficit (o distorsione) culturale patriarcale persiste ancora oggi in vari settori disciplinari, dalle scuole all’università e nella trasmissione culturale informale in cui manca una prospettiva femminile (e femminista).
Se ci pensiamo è assurdo che nell’istruzione manchi la Storia delle Donne e ignoriamo lo studio delle trasformazioni epocali della società con l’avvento dei movimenti di liberazione femminile dagli anni Settanta in poi fondamentali per comprendere i meccanismi del mondo contemporaneo. Allo stesso modo ignoriamo scrittrici, sacerdotesse, politiche, governatrici, scienziate, letterate e filosofe di tutte le epoche dimenticate dai libri o dei cui nomi si sono impossessati gli uomini.
Le sorelle Brontë e altre scrittrici dell’epoca vittoriana, all’inizio pubblicavano le loro opere sotto pseudonimo o nomi maschili, Rosalind Franklin è la chimica inglese e pioniera nello studio delle strutture molecolari tra cui il DNA ma altri si sono appropriati delle sue scoperte e così via.
Per non parlare degli studi anatomici nell’ambito dell’ideologia occidentale misogina che a partire dall’età classica descriveva gli uteri come organi vaganti nel corpo delle donne isteriche o le teorie aristoteliche sull’inferiorità femminile che hanno preparato il terreno per una menzogna plurisecolare sul funzionamento dei corpi femminili, del ciclo mestruale, del piacere clitorideo vincolandoli alla dipendenza dall’uomo come fossero sue proprietà e con enormi costi per la salute dell’intera società.
Integrare nei programmi il pensiero di autrici come Luce Irigary (psicanalista), Carla Lonzi o Simone De Beauvoir, tanto per fare qualche esempio tra i più importanti, aiuterebbe a sviluppare un pensiero critico complesso, capace di conciliare molteplici punti di vista apparentemente in antitesi, estinguendo il pensiero unico patriarcale fondato su una lettura faziosa (soltanto maschile) delle cose e dei rapporti umani.
Inoltre, permetterebbe di sviluppare un contraddittorio interessante rispetto alle molteplici falle logiche di molti degli autori che ci vengono propinati come forieri di verità indiscusse da riverire. È una cultura peraltro lontana dal suo significato originario di coinvolgimento, amore per il sapere e utilità sociale. Quella di oggi è ancora una cultura piena di nozionismo e sfoggio intellettuale come arma di un potere da esercitare su chi è esclusa/o in partenza dal sistema culturale.
Cosa sono gli stereotipi di genere
Ora facciamo un piccolo passo indietro. Cosa si intende esattamente con stereotipi di genere?
“L’insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelle che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere. La mancanza di conformità a tali attese fa sì che le persone interessate vengano ritenute o giudicate come “poco femminili” o “poco mascoline”.
Si può definire anche come percezione pubblica/condivisa delle differenze sessuali nei tratti di personalità e nei comportamenti… Si tratta di una forma imprecisa di conoscenza perché non coglie né le differenze all’interno del gruppo da esso definito né l’evoluzione a cui il gruppo stesso è inevitabilmente soggetto. Per il modo in cui viene costruito.”[1]
Poi, Kimberlé Crenshaw (1959), giurista e attivista statunitense, nota che la discriminazione femminile si può legare ad altri tipi di discriminazione, come ad esempio quella razziale o basata sull’orientamento sessuale, introducendo il concetto femminista di intersezionalità delle discriminazioni in un sistema articolato di dominazioni-oppressioni e giochi di potere di stampo patriarcale e maschiocentrico.
Dunque, ampliare la cultura in senso femminista/paritario e intersezionale equivale anche a scardinare molti preconcetti sulla cultura stessa percepita come entità astratta, autoritaria e impositiva secondo logiche di pensiero patriarcali dicotomiche e gerarchizzanti. Nel momento storico in cui viviamo i nodi sono giunti al pettine, le disfunzionalità di un sistema disuguale, individualista e machista sono contestabili e possiamo indagare i meccanismi tossici che lo sostentano.
In un’epoca che si affaccia sempre di più alla multimedialità, alla fluidità dei rapporti e alla lotta ai pregiudizi le problematicità di una cultura patriarcale emergono anche nel sistema scolastico pieno di programmi misogini, antologie quasi del tutto prive di autrici e di una educazione sentimentale, sessuale, al consenso, al rispetto delle differenze per prevenire la violenza interpersonale e quotidiana. Si tratta di Saperi fondamentali che hanno benefici pratici e non speculativi: non possono più essere trascurati per colpa di tabù irrazionali e resistenze infondate.
La cultura, a partire dal sistema scolastico va trasformata in un senso più umano, svincolandola dal nesso colpa-punizione diseducativo e divisivo di un certo sistema di voti che impartisce una cultura dall’alto e premia soltanto chi impara a memoria, chi riesce a stare paralizzata su una sedia per più ore consecutive seguendo noiose lezioni frontali piene di dati algidi e superflui senza un reale coinvolgimento tra chi insegna/educa e chi viene educata.
Inoltre, ampliare la cultura verso la Storia delle Donne, del Femminismo, Queer e Gender Studies permetterebbe di allargare i nostri confini ideologici e il nostro concetto di “normalità” oltre la rigidità iper-mascolina che pervade anche i nostri ragionamenti, tagliando fuori dall’autorevolezza culturale tutto ciò che non è simile a un vecchio barbuto pensatore dalla fronte accigliata.
Prima di tutto, dobbiamo prendere coscienza che molta della nostra cultura si è imposta con la forza, escludendo il pensiero delle donne (e delle minoranze) dai processi decisionali e relegandole con brutalità all’interno delle mura domestiche in assenza di qualsiasi diritto e possibilità di espressione. Occorre confutare il sapere che diamo per scontato egemonizzato da una prospettiva maschile falso-universale che non tiene conto di temi fondamentali come l’uguaglianza o l’accettazione delle differenze. Si tratterebbe, dunque, di onestà intellettuale oltre che di un’operazione inclusiva.
È il coraggio di renderci conto che chi ha la possibilità di parlare, interpretare e diffondere la realtà che osserva ha spesso un privilegio (più che merito). E se pensiamo agli ultimi interventi di alcuni intellettuali come Sgarbi sul collezionare donne con cui andare a letto e altri trofei di un ego maschile fragile, ci rendiamo conto di quanto i discorsi culturali siano ancora veicolati da prospettive obsolete, riduttive e maschiliste che propongono un approccio antipedagogico e incapace di stimolare un vero pensiero critico rispetto alle sovrastrutture sociali e del potere, specie negli uomini.
Infatti, se da un lato il patriarcato ostruisce il femminile e fa strage di donne dall’altro rende gli uomini schiavi delle gabbie della propria performatività di genere e del giudizio del branco che ne limita l’empatia, con gravi conseguenze anche sulla salute mentale.
Se la discriminazione di genere sfocia spesso in atti di violenza conclamata, la rappresentazione culturale attuale va a legittimarla attraverso l’uso di un linguaggio escludente, inivisibilizzazione delle autrici e di un contraddittorio femminile forte, con la diffusione di stereotipi e immagini mediatiche oggettificanti dei corpi femminili. È un fenomeno rispetto al quale l’intera società deve responsabilizzarsi, ma ad oggi ancora pervasivo se pensiamo a quante volte le professioniste incontrano una massa critica di atteggiamenti sessisti, molesti, ostili e sprezzanti da parte dei loro colleghi, per cui sono portate a tacere o ad autoescludersi.
Tutto questo normalizza il sessismo e conferma i pregiudizi misogini dando l’impressione che la predominanza maschile in molteplici settori culturali e i comportamenti mascolini tossici nella società siano la “normalità” e non l’esito di una cultura sbagliata.
Ragionare attraverso questa nuova prospettiva significa imparare a formulare le giuste domande a cui dare risposte e soluzioni più interessanti e sostenibili. Si tratta di un’intelligenza femminista-ugualitaria capace di organizzare città, ambienti di lavoro, strade, politiche in modo sostenibile, a partire da chi è più vulnerabile e quindi più comode per tutt*.
Un approccio culturale dalla prospettiva degli Studi di Genere è ormai urgente perché le nuove generazioni cercano risposte nuove, credibili e concrete su una realtà complessa e sempre più fluida. Prenderci cura della parità significa prenderci cura di tutte, donne e uomini inclusi, sostenere il benessere delle società, dagli spazi privati, pubblici, interni ed esterni che occupiamo alle relazioni interpersonali, famigliari, sentimentali. Ciascuna/o può fare la sua parte.
Per contribuire a una cultura ugualitaria possiamo partecipare a eventi o laboratori durante i quali imparare a riconoscere e formulare alternative agli stereotipi di genere. Nel nostro piccolo, possiamo contribuire ogni giorno a creare un ambiente inclusivo e armonioso informandoci, interessandoci al punto di vista dell’altra in modo non giudicante, ascoltandoci in modo reciproco e responsabilizzandoci verso l’obiettivo comune e fondamentale della parità.
Il laboratorio “Riconoscere gli Stereotipi e creare parità” che svolgeremo prossimamente è un piccolo contributo per iniziare a colmare qualche lacuna culturale sulle questioni di genere. Si impara tutte/i insieme a rispettarci e a riconoscere quegli stereotipi che ci impediscono di pensare e praticare la parità. Poi si riparte formulando le giuste domande. Infine, si trovano alternative propositive agli stereotipi di genere attraverso il gioco, la connessione con l’altra/o, l’arte, la multimedialità e il racconto per rielaborare vissuti emotivi. Ogni punto di vista è valido perché l’obbiettivo è comune. Quindi, sappi che ci serve anche il tuo aiuto, lettrice o lettore arrivata fin qui, se vorrai partecipare.
Inizia da ora, chiudi gli occhi e immagina di essere a scuola, in un convegno, in una libreria o in un luogo di svago e chiediti:
Come possiamo raccontare meglio le figure femminili della nostra cultura, qui, per una rappresentazione corretta, coinvolgente e paritaria delle donne e degli uomini e dei loro rapporti negli spazi che attraversiamo?
N.B. Non ci sono risposte sbagliate quando le domande sono formulate nel modo giusto. Fai tesoro della tua risposta per porti sempre nuove domande senza dare per scontato la “normalità”.
[1] C.I.R.S.De – Università degli studi di Torino, Corso on line – Introduzione agli studi di genere, Glossario multidisciplinare – Scheda Psicologia Sociale.
Beatrice d’Abbicco, classe 1995, nata a Bari, si occupa di parità di genere. Laureata in Lettere Moderne, specializzata in Scienze dello Spettacolo, anche educatrice e poetessa, formata in Gender Equality, Inlcusion e Diversity Management e Arti Terapie. Considera l’arte come un’occasione di rielaborazione di vissuti personali e collettivi, con impegno nella divulgazione e nell’attivismo anche online (instagram: @stanza_ipazia)
Per quanto complesso e vasto il tema trattato, tutto viene evidenziato in modo semplice e chiaro. Una lettura della storia che richiede, in questo nostro tempo, risposte urgenti, concrete e immediate.