Kintsugi: il valore delle cicatrici
Kintsugi: il valore delle cicatrici

Kintsugi: il valore delle cicatrici

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Se hai familiarità con la cultura giapponese, avrai probabilmente sentito parlare del kintsugi, l’arte di riparare gli oggetti con l’oro; ma ti sei mai chiesto quale sia il significato di questa antica tecnica? Con questo articolo cercheremo di approfondire insieme la filosofia che si cela dietro quest’arte.

Cos’è il kintsugi?

Il kintsugi (金継ぎ), da kin (金) “oro” e tsugi (継ぎ) “ricongiunzione” è una tecnica artigiana di restauro, che consiste nel riparare gli oggetti in ceramica utilizzando l’oro per saldarne i frammenti.

Secondo la leggenda, il kintsugi nasce nel XV secolo quando l’ottavo shogun Ashikaga Yoshimasa, ruppe la propria tazza da tè (chawan) preferita. La tazza fu subito spedita in Cina perchè fosse riparata, ma poichè i ceramisti cinesi utilizzavano per le riparazioni delle legature metalliche di scarsa efficacia, la chawan si ruppe nuovamente dopo poco tempo. Yoshimasa decise allora di affidarla ad alcuni artigiani giapponesi. Questi, rimandendo colpiti dalla tenacia che lo shogun aveva dimostrato nei confronti della sua tazza, decisero di valorizzarla rendnendola un gioiello. A questo scopo, utilizzarono la lacca urushi, ricavata da una particolare miscela di resina e oro, per ricongiungere i cocci. Il risultato fu tanto stupefacente da rendere il kintsugi un’arte apprezzatissima.

fonte: gettyimages

Le tecniche utilizzate sono prevalentemente tre, a seconda dello stato dell’oggetto da riparare (qui un video dimostrativo del procedimento: https://www.youtube.com/watch?v=Ia-nR4hzhLw):

  • Hibi (ひび), “crepa”, che consiste nella riparazione delle semplici crepe;
  • Kake no Kintsugi Rei (欠けの金継ぎ例) “esempio di riparazione dorata (del pezzo) mancante”, che prevede la realizzazione del pezzo mancante, interamente in lacca e oro;
  • Yobitsugi (呼び継ぎ) “invito ad aggiustare/unirsi”, consistente nell’impiego di un pezzo proveniente da un’altra porcellana simile all’originale.

Una filosofia di vita

Abbiamo visto cos’è nel concreto il kintsugi, ma, se ci fermiamo a riflettere, riusciremo ad accorgerci che è molto più di una semplice tecnica: è una vera e propria filosofia di vita. Ritorniamo intanto alla leggenda della chawan rotta di Yoshimasa. Lo shogun avrebbe potuto commissionare al miglior artigiano di ogni paese una nuova tazza, che sembrasse esattamente identica a quella che aveva rotto. Eppure sceglie di ripararla, non una, ma ben due volte. Perchè? Perchè nessuna tazza avrebbe potuto sostituire quella che aveva rotto. Mi spiego meglio: il valore della chawan non risiedeva tanto nella sua estetica, ma piuttosto in ciò che quella specifica tazza rappresentava per lui.

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fonte: pixabay

Gli artigiani giapponesi incaricati di aggiustare la chawan notano la tenacia di Yoshimasa e colgono la forte sensibilità che essa cela. Per questo motivo, decidono di rendere immediatamente visibile il valore di quella tazza, curando ed al contempo enfatizzando le “cicatrici” dell’oggetto. Nascondere le crepe, come probabilmente molti di noi farebbero con un oggetto rotto, sarebbe stata una strategia di poco conto: le crepe avrebbero continuato a ricordare una forma che non può più essere ricreata e che, ormai, non è più coerente con il vissuto dell’oggetto stesso. Valorizzare i punti di rottura, invece, significa tante cose.

In primis, significa apprezzare l’imperfezione. Il concetto si ricollega strettamente alla visione del wabi-sabi, vale a dire la consapevolezza che nulla è eterno, nulla è perfetto, nulla è compiuto. Wabi-sabi si può tradurre infatti come “bellezza malinconica”, dove la malinconia altro non rappresenta che la consapevolezza del cambiamento. Essa non ha connotazione negativa, anzi: Andrew Juniper parla proprio di “serena malinconia”, poichè assume quasi i connotati di una tensione spirituale verso la comprensione di tutto ciò che è autentico. Le radici di tale concezione sono da ricercare nella dottrina buddhista dell’anitya (impermanenza), in cui l’essere immutabile degli eternalisti è sostituito dal divenire.

Ecco che, in secondo luogo, dare valore alle cicatrici significa dare valore al “viaggio” e alle difficoltà che esso comporta. Ogni crepa è un sentiero che ripercorre il vissuto; pertanto deve essere resa visibile, in quanto esperienza di arricchimento. Su questo punto mi voglio soffermare. Si potrebbe erroneamente pensare che il valore della crepa dipenda dall’oro che la ricopre, ma in realtà è il contrario: la crepa è coperta d’oro proprio perchè ha valore. In questi termini, l’oro diventa uno strumento funzionale ad esaltare il valore che già c’è, non una “forza” necessaria ad aggiungere un valore che manca. Per questo, da ultimo, kintsugi significa anche apprezzare l’unicità dell’imperfezione.

La tazza come metafora

Fino ad ora si è parlato di una tazza, ma immaginiamo che essa rappresenti ognuno di noi. Vivendo, ci capiterà di soffrire, di essere a pezzi a tal punto da arrivare a pensare che così, rotti e feriti come siamo, non abbiamo valore. In questi momenti, l’arte del kintsugi ci deve ricordare che il dolore va abbracciato e accettato come una nuova parte di noi. Esso non ci annulla, ma cambia la configurazione delle nostre parti, rendendoci diversi.

kintsugi
fonte: facebook

Ogni ferita del nostro passato si interseca ad un’altra formando un tracciato di crepe dorate che ci rende unici. Sta a noi scegliere di camuffare le cicatrici, nel tentativo di recuperare in modo goffo e poco durevole l’aspetto iniziale, oppure valorizzarle come parte di noi, come un valore aggiunto che dimostri la nostra esistenza al mondo. Non ci si può aspettare di vivere senza cambiare: bisogna mettere in conto che ci si possa rompere, scheggiare, che si possano addirittura perdere dei pezzi lungo la strada. Ma quanto più numerose sono le ferite, tanto maggiore sarà la complessità che ci caratterizza.

fonte: gettyimages

Certo, riparare la crepa con l’oro richiede più tempo che tenerla insieme con un po’ di colla a presa rapida, ma alla fine avremo creato un’opera di valore.

Pazienza, resilienza, consapevolezza. Questa è per me l’arte del kintsugi: una forma di cura che ci insegna ad apprezzare la vita.

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