A seguito della diffusione del Covid-19, fenomeni come il quiet quitting e il quiet thriving hanno preso un forte e deciso sopravvento, destinato ad incrementarsi nel corso del tempo.
L’esperienza pandemica degli ultimi anni ha provocato un aumento spropositato di cambiamenti a fronte di disagi totalmente imprevisti – o fino ad allora messi da parte-, ma ha anche contribuito a far nascere ed evolvere nuove modalità di pensiero riguardo molteplici aspetti del quotidiano.
Soffermiamoci un momento sulla presa di coscienza dell’ausilio tecnologico in ambito scolastico, accademico e lavorativo: la mancanza di contatto fisico ha senz’altro causato danni importanti, a cui ancora oggi ci si impegna nel trovare soluzioni appropriate per salvaguardare la salute mentale e sociale; tuttavia, la modalità virtuale ha aperto le porte a nuovi orizzonti formativi e professionali che ancora oggi proseguono la loro scalata verso un notevole successo (si pensi alle università telematica e allo smart working).
É inevitabile, inoltre, che siano sopraggiunte anche ventate di cambiamento nel modo di concepire il quotidiano e le occupazioni personali: abbiamo imparato a dare valore al singolo momento, a discostarci dalla solita routine e a interrogarci sul vortice a cui ogni giorno prendiamo parte con i nostri doveri.
“É davvero possibile perdere di vista l’obiettivo e farsi divorare dal processo?“. Certamente sì.
É da questi presupposti che nasce il quiet quitting, ma la domanda è: di cosa si tratta?
Quiet quitting: lavorare il giusto necessario
L’espressione quiet quitting significa dall’inglese “abbandono silenzioso” e ha iniziato a diffondersi in modo virale durante la pandemia del Covid-19: su TikTok, l’hashtag #quietquitting ha raggiunto in poco tempo 8,2 milioni di visualizzazioni. Non si tratta certamente di un concetto nuovo, ma in era post-pandemica costituisce un fenomeno sempre più visibile e stabilmente al centro del dibattito sul mercato del lavoro.
Interessante e importante è riflettere sul tema della disoccupazione giovanile in Italia: nel 2020 la percentuale di giovani disoccupati ha infatti raggiunto il massimo storico con il 29,3%. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), a maggio 2023 il tasso di giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni è aumentato del’1% rispetto all’anno precedente, passando dal 20,5% al 21,7% (in Europa la media si aggira invece intorno al 13,8%).
A tal proposito, si potrebbe definire quiet quitting quel fenomeno che coinvolge ancora oggi il mondo del lavoro, in cui i dipendenti sono disposti a svolgere solo lo stretto indispensabile compatibilmente con le ore definite da contratto, rifiutando di fare straordinari, aderire a progetti extra e assumersi ulteriori responsabilità.
La Generazione Z è massima promotrice del quiet quitting
Linda Jingfang Cai, vicepresidente per lo sviluppo dei talenti di LinkedIn, ha rilasciato a tal proposito questa dichiarazione:
La giovane categoria di lavoratori esige che i datori di lavoro si occupino di loro come persone nel loro insieme e la capacità di comprendere il loro percorso di carriera vale più di una busta paga.
Infatti, i giovani lavoratori tendono a rifiutare straordinari (anche retribuiti) o di portare avanti progetti durante i weekend o, più in generale, di farsi carico di responsabilità che vanno oltre le attività che competono loro, soprattutto quando manca la valorizzazione dell’operato.
Per gli appartenenti alla Generazione Z il denaro potrebbe non essere sempre la priorità principale sul lavoro, o comunque potrebbe non essere paragonabile alla facoltà di avere più tempo a disposizione da dedicare a se stessi.
Le cause del quiet quitting
La verità è che il quiet quitting si rivela come una vera e propria contro-tendenza rispetto alla hustle culture – letteralmente, “cultura del trambusto” -, il mito di matrice statunitense secondo il quale le persone dovrebbero dedicare tutta la propria vita al lavoro.
Si tratta di un pensiero estremamente nocivo, soprattutto se adottato seriamente come stile di vita: è soprattutto su queste basi che tende a sorgere il meccanismo del burnout, che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualifica quello stato di stress cronico in ambito lavorativo, caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali che spesso provoca inconsapevolmente anche forme di malesseri intense (si pensi alla sindrome dell’anatra).
Dunque, come può essere diventato subito virale il fenomeno dell’abbandono silenzioso? Le cause sono molteplici. Innanzitutto, è chiaro che la pandemia ha condotto molte persone a valorizzare aspetti della propria vita esterni al lavoro, che prima si tendevano a mettere da parte anche per mancanza di tempo. In secondo luogo, le tematiche psicologiche come il burnout, la salute mentale e lo stress patologico da lavoro sono divenuti sempre più diffusi nel dibattito pubblico.
Occorre menzionare, infine, un’altra ipotesi quotata, sostenuta dalla Harvard Business Review: il quiet quitting potrebbe non fare esclusivo riferimento alla volontà dei dipendenti di lavorare di più o di meno e con maggiore o minore coinvolgimento. É di vitale importanza la capacità di un manager di costruire un rapporto con i propri impiegati, che non li induca a non vedere l’ora di uscire dall’ufficio.
Secondo il report 2022 State of global workplace di Gallup – che ogni anno fornisce dati di vario tipo sul lavoro in giro per il mondo – solo il 14% dei dipendenti in Europa può essere ritenuto davvero coinvolto nella propria attività lavorativa. La tesi della Harvard Business Review è, quindi, che la diffusione del fenomeno in questi mesi abbia molto a che vedere con i tentativi fallimentari dei manager nel conciliare gli obiettivi aziendali col benessere individuale e collettivo dei propri dipendenti.
Dal quiet quitting al quiet thriving
Sulla scia del quiet quitting, nel 2023 ha iniziato a svilupparsi una nuova tendenza altrettanto nota e in costante crescita: il quiet thriving.
L’espressione è stata coniata da una psicoterapeuta americana e significa letteralmente “prosperare silenzioso”. Il quiet thriving potrebbe essere descritto come la tendenza a cambiare il proprio approccio al lavoro, cercando nuovi stimoli, migliorando le relazioni professionali con colleghi e manager e dandosi obiettivi condivisi e stimolanti per crescere professionalmente.
“A tutti, prima o poi – spiega Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, prima società di ricerca e selezione con un Digital Operating Process –, è balenata nella testa l’idea di mollare il proprio posto di lavoro, anche senza avere una valida alternativa già pronta.
Ma dobbiamo essere onesti, questa idea non è quasi mai attuabile e questo, a lungo andare, può generare frustrazione e malessere nelle persone che, come accaduto diffusamente nei mesi scorsi, possono mettere in pratica quello che abbiamo imparato a conoscere come quiet quitting e che, tuttavia, non è una strada da percorrere all’infinito. Ed è proprio qui che subentra il quiet thriving, la tendenza a rincorrere quella prosperità silenziosa che ci consente di vivere al meglio le ore che trascorriamo in ufficio”.
“Il primo obiettivo – aggiunge Francesca Contardi – è riuscire a sentirsi più coinvolti dal proprio lavoro, identificando, ad esempio, gli aspetti e le attività che si ritengono più soddisfacenti e stimolanti. Il quiet thriving, però, è anche legato alla qualità delle relazioni con manager e colleghi: il miglioramento della soddisfazione, infatti, passa anche attraverso la qualità delle relazioni con le persone con cui si trascorre una parte importante della quotidianità.
Promuovere un atteggiamento più propositivo porta inevitabilmente benefici perché, non dimentichiamolo, non c’è niente di più deleterio, anche a livello di business, di un ambiente lavorativo stressante, senza stimoli e ricco di conflitti”.
Ebbene sì: concepire la carriera in modo sereno, senza il peso di performare e di dare sempre e costantemente il massimo, è davvero possibile.
É importante, tuttavia, imparare a dare valore al proprio tempo, alla propria persona e all’ambiente che ci circonda: solo agendo a favore di noi stessi e ascoltando le nostre esigenze sarà davvero possibile iniziare a concepire il nostro percorso formativo e professionale in un modo totalmente distante da condizioni di stress e ansia patologica.
Mi chiamo Serena (di nome sicuramente, ma non sempre di fatto) e amo scrivere, dipingere e prendermi cura dei fiori e dei miei piccoli cagnolini. Per me ogni voce ha un valore e merita di essere ascoltata: è da questo pensiero che ho creato e sto portando avanti con entusiasmo e passione la nostra APS UNIVOX ETS.