Ogni minuto, il tuo cuore batte, in media, circa quattromila volte; per dodici – o quindici- volte, la tua gabbia toracica si espande trascinando nel suo movimento anche i polmoni, per rifornire i tessuti del corpo di ossigeno. E l’ossigeno serve per produrre energia dalla combustione dei nutrienti, per garantirti di stare nel mondo. quando il combustibile si esaurisce, il corpo te lo comunica attraverso la fame.
In pratica, il corpo è una miriade di fuochi sacri e la tua esistenza scaturisce da questa ritualità. Chiamare tutto questo “metabolismo” avvilisce questo inspiegabile miracolo, per le sofisticazioni che, con il tempo, sono state imposte al termine.
Eppure, “metabolismo” deriva dal greco “mutazione, cambiamento”: un’etimologia che va contro alla maggior parte dei contesti in cui si abusa di questa parola. Si parla di metabolismo per evitare di cambiare la propria forma, o per tendere ad un obiettivo permanente. Sembra quasi che il metabolismo sia diventato uno strumento per cristallizzare il corpo; per conformarlo ad un ideale immateriale.
Con questo approccio meccanicistico, si è perso il contatto con la materialità del proprio essere nel mondo -o, piuttosto, la si è rifiutata completamente. E la materia non è “sporca, rozza, inferiore”; la materia è, esiste, esperisce oltre a quei fronzoli moralistici che l’hanno buttata giù. Se il metabolismo è cambiamento, allora è Vita nel suo significato più essenziale, e non importa quanto il positivismo e la biomedicina tentino di ri- programmarlo come se fosse un software.
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La fame: una necessità vile
Il tentativo di ri-programmazione è iniziato quando si è diffusa la convinzione che esistano bisogni più nobili di altri, e che la fame sia in fondo a questa piramide morale, e vada repressa e invalidata; mai ascoltata, a meno che bisogni “superiori” come il compiacimento estetico e la definizione muscolare siano stati raggiunti. Solo quando la forma del corpo è definitivamente asservita alle pressioni sociali si può riprendere ad ascoltare la propria fame, con il rischio di averla persa completamente e di aver perso la memoria delle sensazioni che il corpo provoca per comunicare i propri bisogni.
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Quando ero nel pieno del mio disturbo del comportamento alimentare, all’inizio sentivo una fame attanagliante, ossessiva, e la combattevo con il pensiero altrettanto ossessivo che la sensazione dello stomaco pieno è solo per chi se la merita, che il mio corpo mi detestava perché voleva occupare più spazio, mentre io volevo sparire.
Questa distorsione cognitiva ha completamente modificato la percezione del mio “essere-fisiologico”, per cui ho passato almeno cinque anni senza più sapere cosa fosse la fame. Non riuscivo a sentirla neanche quando sembravo fisicamente in salute; mi alimentavo senza nutrirmi, in modo del tutto spersonalizzato. Ricordo la sensazione del primo stomaco brontolante dopo anni come un prodigio e un privilegio: finalmente potevo sentirmi, sentire “questo corpo che mi vuole bene”.
Ma ecco un’ulteriore complicazione: se, quando si è bambini, si apprende che ci sono cibi che fanno bene e cibi che fanno male; che non si può fare uno spuntino alle 19, nonostante la fame, perché alle 20 si mangia e quindi bisogna resistere al bisogno come fosse una tentazione diabolica; che questa sera si mangia la pizza e quindi, a pranzo, solo insalata fresca condita di desiderio di un piatto di pasta – se quando si è bambini si interiorizzano tutte queste regole inutili, la fame non diventa una questione anche emotiva, oltre che morale?
Se la televisione è dominata dalla grassofobia, e Augusts Gloop rimane bloccato in un tubo della Fabbrica di Cioccolato perché bisogna punirlo per la sua ingordigia; e Monica riesce ad avere degli amici ed un fidanzato solo quando perde peso (Friends) e la personalità di Ciccia Amy (Pitch Perfect) coincide con il suo tessuto adiposo e la stupidità che sembra esservi correlata con incontestabile solidità logica, allora come si fa ad accettare il proprio corpo e a nutrirlo a prescindere dalla sua forma? La fame cambia la forma del corpo, e la percezione che gli altri avranno di quest’ultimo. E, nella società delle sofisticazioni morali, assecondare la fame significa non avere disciplina ed essere incapaci di autocontrollo.
La fame emotiva è anche desiderio di validazione a prescindere dal corpo; rivendicazione di una materialità nobile, del diritto ad esistere e nutrire questa esistenza che comprende anche personalità, pensiero, relazioni, passioni. Solo con il corpo si può esperire, eppure lo si ignora pensando di essergli superiori. e questa fame persistente, prepotente, cerca di rievocare la necessità di curarlo per poter vivere davvero.
Florence and The Machine spiega brillantemente queste sensazioni nella canzone “Hunger” -fame, non a caso-:
At seventeen, I started to starve myself I thought that love was a kind of emptiness And at least I understood then, the hunger I felt And I didn’t have to call it loneliness We all have a hunger
Abbiamo tutti una fame di vita, a prescindere da quella fisiologica. Ed anche questa fame merita attenzione e cura.
E quindi grazie, Fame, perché ci permetti di sostenerci, perché ci ricordi che siamo quello che mangiamo -corpo, molecole, materia, esistenza- ma, allo stesso tempo, che non lo siamo, perché ci dai la possibilità di scegliere di cosa nutrirci, e questa libertà ci permette di esprimerci; grazie perché, contrariamente a quanto siamo stati abituati a credere, non ti interessa se un alimento è stato fritto o bollito, se ha il sale o il gomasio, purché nutra; perché sei superiore alla moralizzazione del cibo e torni sempre; e, nel tornare, non giudichi.
Se, dopo una cena abbondante, ci siamo convinte di non meritare la colazione, tu ti fai sentire per dirci che il nostro corpo ha bisogno di nutrimento sempre, persino -paradossalmente- per farci formulare questi giudizi e questi pensieri disfunzionali. Grazie, Fame, perché non avremmo esperienza del mondo, senza di te.
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