De.sidera. Il timore di fallire dopo la laurea, le pressioni sociali e la parole di R.
De.sidera. Il timore di fallire dopo la laurea, le pressioni sociali e la parole di R.

De.sidera. Il timore di fallire dopo la laurea, le pressioni sociali e la parole di R.

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“Da quanto tempo! Ma ti sei laureata?”

Il percorso accademico è ad oggi uno dei temi più discussi e, purtroppo, connessi al contesto del disagio giovanile. I dati sono evidenti: un questionario psicologico sottoposto dall’Università Statale di Milano, nel 2022, a 7096 studenti, ha mostrato che il 32% è insoddisfatto della qualità della propria vita. 

“Questi dati indicano un malessere diffuso, che nel tempo può predisporre a una diminuzione della volizione e della motivazione, a un abbassamento dell’autostima, a un aumento dello stress, e anche a problematiche ansiose o depressive”, spiega la prof.ssa di Psicologia generale, Ilaria Cutica, curatrice del progetto.

ansia dopo la laurea

Il 48% ammette di provare ansia da prestazione fonte di peggiori prestazioni accademiche, mancanza di concentrazione, senso di panico, inquietudine e sintomi somatici. Il 47% degli studenti ammette di aver cercato aiuto, di questi il 23% ha fatto consulenza e il 24% ha iniziato un percorso di psicoterapia.

Gli studenti delle scuole italiane sono i più stressati d’Europa

I problemi legati alla salute mentale non riguardano solo gli studenti universitari: gli allievi delle scuole italiane appaiono, infatti, particolarmente stressati, con incidenza superiore rispetto alla media europea. Ce lo conferma il report OCSE 2022: esso mostra che, in uno studio condotto su 3651 studenti, il 70% di essi si dichiara preoccupato riguardo la propria situazione di studente, rispetto al 56% della media europea.

Inoltre, il 56% ammette di essere nervoso riguardo alle verifiche da svolgere in classe, percentuale ben più alta rispetto al 37% europeo, e molti dichiarano di vivere attacchi di panico causati dalla paura delle valutazioni dei professori.

Secondo i dati Unicef, il 15% degli studenti ha ricevuto una diagnosi di disturbo mentale, nel 40% dei casi relativo ad ansia e depressione. Le cause del malessere appaiono radicate nella società, basata sulla competizione aumentata dalla pressione dei voti: molti lamentano un sistema di valutazione uniformante, che non tiene conto delle singolarità.

Dopo la laurea: il futuro fa paura

Arriviamo al dunque. Al termine del percorso formativo, infatti, non terminano di certo lo stress e l’ansia. Questa volta, però, si tratta di timore per il futuro, il peso dell’aspettativa e il bisogno di realizzarsi quanto prima per non deludere né noi stessi, né soprattutto chi confida in noi.

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un forte incremento della depressione post lauream nei giovani, i quali non vedono più tale traguardo come uno dei migliori momenti della propria vita, come un traguardo importante raggiunto grazie alle loro forze e alle loro conoscenze, ma come un salto nel vuoto, in un futuro incerto, contraddistinto da difficoltà economiche, isolamento sociale, precariato. 

La disoccupazione giovanile è in costante crescita e spesso l’unico modo di procurarsi un reddito è accettare dei lavori precari, sfruttati e malpagati. Dopo la laurea, lo studente si trova di fronte a una scelta che può condizionare la sua futura carriera professionale e deve essere quindi ben ponderata: approfondire le sue conoscenze/competenze seguendo un percorso di specializzazione post lauream o proporsi subito nel mondo del lavoro?

dubbi del neolaureato come “che servizi posso dare alla società?” “sarò all’altezza?” “Non sono più uno studente, cosa sono ora? Cosa me ne faccio della mia laurea?”  generano spesso ansia e frustrazione. Ci sono persone, infatti, che agiscono e rischiano mettendosi alla prova e ci sono altre persone, la maggior parte purtroppo, che invece rimangono ferme, paralizzate e sopraffatte da mille emozioni che non sono in grado di contenere. Questo a lungo andare può portare gravi conseguenze sul loro funzionamento psichico.

Diventano così frequenti un costante malumore, pensieri negativi e pessimisti circa se stessi, gli altri e il proprio futuro, intensi stati di insoddisfazione e tristezza, oltre che una riduzione del piacere nelle comuni attività quotidiane. 

Il periodo di smarrimento implica anche una ridefinizione della propria identità, delle proprie aspettative e delle attese. Valori e ideali che all’inizio rappresentano un’opportunità di crescita, in realtà si trasformano in una “fase di mezzo” sempre più difficile da superare.

É qui che entra in gioco la nostra rubrica “De.sidera”: essa rappresenta un grande passo per la nostra associazione, dal momento che finalmente ogni voce acquisirà lo spazio di cui necessita per esporre problemi, riflessioni, disillusioni e – soprattutto – desideri. La domanda che spesso ci viene posta p questa: “Perchè De.sidera?”. Ce lo spiega il latino.

La nostra rubrica De.sidera: di cosa si tratta?

Il desiderium (in italiano, “desiderio”) richiama due parole latine: de e sidera. La prima è una preposizione di allontanamento, distanza, mentre la seconda richiama evidentemente il mondo astrale. Il desiderio delinea propriamente la distanza dalle stelle: cos’è un desiderio se non proprio una speranza che si vuol raggiungere, volgendo lo sguardo verso il cielo?

Tale distanza richiama proprio quella percepita dal mondo giovanile nei confronti del quotidiano: un allontanamento ancestrale dal mondo che divide e allontana, che fa paura e che non sempre si riesce a comprendere. Noi, però, qualcosa la possiamo fare: prendere atto di tale disagio e intervenire nel nostro piccolo per salvare ciò che inferno non è.

rubrica de.sidera

La testimonianza di R.

Abbiamo scelto di intervistare una nostra grande sostenitrice, R., che ha terminato lo scorso anno il biennio magistrale ed ora è in procinto di intraprendere un nuovo percorso accademico. 

  1. Ciao R., come descriveresti il tuo rapporto con lo studio in questo momento?

Questa domanda arriva in un delicato momento di svolta. Dopo un anno di pausa in cui non ho quasi più aperto libro, pochi giorni fa ho saputo di aver vinto un Dottorato di ricerca: in pratica, tra qualche settimana tornerò a studiare, e molto di più rispetto a prima. Al momento questa prospettiva mi incuriosisce e mi rende impaziente di cominciare. 

  1. Il percorso accademico che hai frequentato ti ha soddisfatto complessivamente?

Complessivamente sì. Certo, non tutti i corsi che ho seguito mi sono piaciuti, anzi, alcuni erano utili sulla carta ma sviluppati molto male nel concreto. Però, in proporzione, sono senza dubbio più numerose le materie che mi hanno coinvolto e appassionato. Credo che ciò sia dovuto soprattutto al fatto che, nel comporre il proprio piano di studi, ciascuno di noi era libero di scegliere i corsi che più erano nelle sue corde. 

  1. Hai sempre avuto le idee chiare riguardo il tuo futuro?

No. Assolutamente. Io ho frequentato una di quelle classiche facoltà che, quando la gente lo viene a sapere, ti chiede subito: “Ah, ma quindi farai X?”. Come se esistesse una sola strada possibile! Questa domanda mi ha sempre infastidita. Anche ora non sono sicura di cosa mi succederà. Per ora continuerò a fare ricerca in quello che ho studiato per tanti anni, ma chissà dove sarò e cosa vorrò per me stessa fra cinque anni. 

  1. Ti è mai pesata l’assenza di punti di riferimento a cui chiedere consigli relativamente al tuo percorso di studi e lavorativo?

Sì. Io ho scelto il mio percorso di studi completamente da sola e quando esternavo le mie intenzioni per il futuro con chiunque – anche con la mia famiglia – non ero propriamente incoraggiata. 

  1. Hai mai vissuto l’ansia del non terminare il percorso di studi in tempo?

All’inizio sì, soprattutto quando qualche esame slittava all’anno accademico successivo. Ci ho messo un po’ a capire che è perfettamente normale non dare tutti gli esami entro settembre. Nella mia famiglia, poi, praticamente nessuno ha fatto l’università (a parte i parenti più giovani, come i cugini), perciò potete immaginare che spesso mi sono sentita incompresa. Poi, però, sono entrata nel meccanismo e mi sono semplicemente adattata. Studiavo molto, facevo di tutto per sentirmi preparata, e per fortuna non mi è mai andata male. Quando ho acquisito fiducia nelle mie capacità, anche le paure sono sparite.

  1. Una volta raggiunto il traguardo della laurea, cosa è successo?

Per rispondere a questa domanda devo fare una premessa: fino a questo momento ho descritto il mio rapporto con lo studio e con l’università in modo (forse un po’ troppo) idilliaco. Non è sempre stato così. Nell’ultimo anno di università, complice il fatto di studiare in un’altra città e di dover economicamente dipendere dai miei genitori, mi sono sentita letteralmente schiacciata dalle pressioni sociali. Man mano che si avvicinava la fine del percorso, le paure e i timori che avevo a 18 anni, quando scelsi il mio percorso di studi, si sono rifatte vive e non mi hanno dato tregua per mesi e mesi.

Finito il liceo, spesso mi sono sentita dire (anche dai miei familiari): “ma sei sicura di voler studiare X? Dopo non ci sono molte possibilità nel mondo del lavoro”, “È una scelta coraggiosa, ma dopo cosa fai?”, “Ma tu sei bravissima, perché hai scelto proprio X? Potresti fare Medicina, abbiamo un sacco bisogno di medici!”, e potrei continuare all’infinito. So che le persone che mi dicevano queste cose lo facevano in buona fede, ma era inevitabile che mi ferissero. Più di una volta sono scoppiata a piangere davanti a loro e non mi vergogno assolutamente a dirlo.

Comunque, alla fine ho scelto di fare ciò che mi incuriosiva e appassionava. A 18 anni non pensavo troppo al futuro, perché tanto come minimo sarebbero trascorsi cinque anni prima di arrivare a quel famigerato “dopo”, e in cinque anni possono succedere tante cose. Per un po’, quindi, ho vissuto con serenità: mi sono goduta il momento, la bellezza dello studio, dello scoprire, dell’imparare. Poi dai 18 sono passata a 24 anni e, come ben sa chiunque abbia già avuto quest’età, mi sentivo un’altra persona.  Più si avvicinava la fine del percorso, più sentivo crescere dentro di me una sensazione di disagio e di sfiducia verso ciò che mi aspettava dopo la laurea.

Alla fine, le pressioni sociali avevano avuto la meglio sul coraggio e la determinazione iniziali. L’ansia e la paura mi hanno portata, nell’ultimo anno di magistrale, a studiare con molto meno entusiasmo rispetto al passato. Lo facevo perché dovevo, ma non provavo quasi più emozioni. Sbrigarmi, laurearmi e trovare un impiego era diventato un pensiero fisso. Quando, infine, ho stretto tra le mie mani la tanto agognata pergamena di laurea, ricordo di aver pensato: “e adesso che faccio?”. Da un giorno all’altro mi sono ritrovata catapultata in quello che io chiamo “il limbo”: non sei più uno studente, ma nemmeno un lavoratore, non produci nulla né per te né per gli altri.

Mi sentivo un peso, ma non mi sono arresa: nonostante il malessere, mi sono data da fare per cercare un’occupazione, ma con scarsissimi risultati: più leggevo gli annunci di lavoro, più mi rendevo conto di non identificarmi in nessuno dei profili richiesti. Quei pochi annunci per cui ero idonea offrivano delle condizioni e delle paghe indecenti. Negarlo non ha senso: il post lauream, per come l’ho vissuto io, è stato un periodo orribile che non auguro a nessuno. Mi sono sentita incapace, incompleta, incompresa, inadatta, ma c’è un sentimento che ha prevalso su tutti gli altri: la rabbia.

Ero arrabbiata perchè, dopo tanto studio e impegno, era un mio diritto poter mettere a frutto le mie competenze, ma niente o nessuno me ne dava l’occasione; ero arrabbiata per lo sguardo – a tratti pietoso – con cui alcuni mi guardavano quando ero costretta ad ammettere che, nonostante le decine di ricerche sui siti di annunci, non trovavo nulla di soddisfacente; ero arrabbiata perché cominciavo a pensare di dovermi “accontentare”; ero arrabbiata perché tutte le ansie e le pressioni sociali cui ero stata sottoposta mi avevano reso una persona pessimista, quando, al contrario, ero sempre stata abituata a guardare il bicchiere sempre mezzo pieno. Tutto ciò è durato all’incirca 10 mesi.

Parallelamente alla ricerca di un lavoro – anche non necessariamente attinente al mio campo di studi – ho tentato la via della ricerca universitaria. Inizialmente avevo escluso questa possibilità dai miei orizzonti perché, ancora una volta, molte persone mi avevano scoraggiata dicendomi che è un percorso a ostacoli, che c’è molta competizione, che le paghe sono da fame se rapportate ai doveri e agli obblighi, eccetera eccetera. Poi però ho avuto la grande fortuna di vincere una borsa di studio per svolgere un breve periodo di ricerca all’estero (circa due mesi), e questa esperienza mi ha spronato a provare i concorsi di dottorato.

Ho quasi smesso di cercare annunci di lavoro e mi sono concentrata sulle prove concorsuali, per le quali bisognava prepararsi. Come ho detto all’inizio di questa intervista, pochi giorni fa ho saputo di aver vinto la borsa di Dottorato, ma ci tengo a specificare che, prima di giungere a questo traguardo, ho fallito ben nove volte. Potete immaginare quale sia stato il mio umore mentre, controllando i risultati delle prove presso le varie università in cui tentavo, scoprivo di non essere passata. Questi fallimenti sono stati, forse, i peggiori che abbia mai dovuto digerire, perché si trattava di prove su materie che io avevo studiato per cinque, lunghi anni, tra l’altro ottenendo buoni voti agli esami.

Non smettevo di chiedermi: “ma cos’ho che non va? Perchè non riesco a passare?”. Lo dico sinceramente: se al decimo tentativo non avessi vinto, oggi probabilmente sarei ancora nello stesso umore demoralizzato e pessimista che mi ha accompagnato per mesi. Per fortuna ora sto molto meglio a livello mentale, perché so che sta per cominciare un’esperienza meravigliosa, ma so che per molte persone – anche di mia conoscenza – il futuro appare ancora nero e imperscrutabile.   

  1. Quali pensi possano essere gli ostacoli per uno studente neolaureato?

Gli ostacoli sono molteplici e forse adesso dirò delle ovvietà: oltre alla scarsa richiesta (in particolare per alcuni settori), c’è il grande problema delle condizioni imposte dai datori di lavoro, che spesso rasentano la schiavitù. Conosco persone che, ritenendosi già fin troppo fortunate ad aver avuto la possibilità di fare ciò che le appassiona, non solo hanno accettato paghe da fame e corrisposte con mesi e mesi di ritardo, ma hanno anche dovuto sopportare le angherie dei loro superiori, che in qualche caso arrivavano persino a minacciarle di non pagare lo stipendio se non si comportavano in una determinata maniera.

Un’altra difficoltà notevole risiede negli altissimi costi di eventuali corsi di formazione post lauream. A volte, leggendo gli annunci di lavoro, mi sembra di assistere a una gara a chi ha più titoli. Ci tengo a precisare che non sto denigrando l’alta formazione, anzi: più una persona è formata nel proprio campo, più sarà brava a svolgere i suoi compiti, e tutti traggono giovamento dalla sua bravura.

Il problema è che la formazione post-lauream ha dei costi vertiginosi: io stessa, quando ero ancora alla spasmodica ricerca di un qualcosa che mi tenesse occupata, ho valutato di continuare a formarmi con qualche master. Risultato? Non ho trovato nulla a meno di 3000 euro, una somma non certo esorbitante, ma alla quale spesso si sommano le spese di mantenimento in un’altra città, giacché la frequenza dei corsi è obbligatoriamente in presenza. Non dobbiamo quindi sorprenderci se uno studente che ha già fatto molti sacrifici per pagarsi gli studi universitari rinunci a continuare a studiare perché, banalmente, non può permetterselo.     

  1. Cosa consiglieresti ai neolaureati, in base alla tua esperienza personale?

Io non posso certo dare lezioni di vita. In moltissimi casi sono certa che questi neolaureati a cui mi rivolgo siano miei coetanei, o addirittura più grandi di me. L’unica cosa che mi sento di dire è questa: non perdete la speranza, non accontentatevi e, soprattutto, non datevi un limite di tempo per raggiungere un obiettivo. Se non ce la fate dopo dieci tentativi, non mollate: potreste farcela all’undicesimo. 

  1. Desideri lanciare un appello alle istituzioni locali? Se sì, quale?

Anche qui sarò banale: bisogna investire nella formazione e nell’istruzione. In questo preciso momento storico, con tutti gli aiuti che stanno arrivando anche e soprattutto dall’Europa (penso al PNRR), alla scusa del “non ci sono i fondi” non ci crede più nessuno. I social, le TV e i quotidiani straripano di studi e indagini che mostrano chiaramente come, quando il governo e le istituzioni ricevono dei fondi e devono decidere cosa farne, l’università e la ricerca rimangono sempre in fondo alla lista delle priorità.

Quando dico che bisogna investire su questo settore, non mi riferisco solo all’aumento – sacrosanto – delle borse di studio e degli alloggi, ma alludo soprattutto ai risvolti lavorativi e alla salute mentale. Sarebbe anche ora, per esempio, di vietare la pratica barbara e disumana dei tirocini non pagati: per quale motivo una persona che mette gran parte del proprio tempo a disposizione di un’azienda non dovrebbe ricevere una ricompensa, non dico uguale a quella di chi è già formato e lavora, ma almeno dignitosa?

Bisognerebbe poi fornire un supporto psicologico realmente adeguato alla domanda: i governi e le istituzioni sembrano proprio non riuscire a capire che la fase che va grosso modo dai venti ai trent’anni è forse la più delicata che un essere umano possa attraversare, ed è normale sentirsi spaesati e disorientati. Se però avessimo un adeguato supporto, probabilmente la nostra bussola personale funzionerebbe meglio e più velocemente.  

I nostri prossimi articoli

La rubrica prevede la pubblicazione di un articolo settimanalmente, tra il venerdì e il sabato, e affronta volta per volta tutte le molteplici sfaccettature del contesto di disagio giovanile.

Lo scorso articolo – nonché il primo che ha inaugurato “De.sidera” – ha affrontato il tema della disillusione e della fragilità, accompagnato dall’intervista ad una delle nostre storiche collaboratrici, la dottoressa Gioia Iannitti, psicologa e professionista della salute mentale.

Come ci ha detto la dottoressa, “l’adolescenza è una fase di passaggio, che è caratterizzata da svariati cambiamenti di diversa natura (non solo quelli ormonali): aree dell’identità, raggiungimento di importanti compiti evolutivi, conflitto interiore tra la spinta naturale a crescere e divenire adulti e il forte desiderio di sentirsi ancora bambini”.

Questa dualità sarà oggetto di discussione anche nei prossimi articoli, che tratteranno tematiche legate alla ricerca di un’identità in cui riconoscersi, la pressione della buona prestazione, il consenso e la violenza, il peso degli stereotipi, la difficoltà di trovare un posto in un mondo che corre e fluisce senza sosta e tanto altro.

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